di Alessandro Santagata
Da Il Manifesto 7.7.2017
Nell’introduzione a I Rivoluzionari Eric Hobsbawm sosteneva che la differenza principale tra la sua generazione e quella dei militanti degli anni Sessanta consisteva nel fatto che la prima aveva creduto nel socialismo e si era formata nel mito della Rivoluzione russa, mentre la seconda andava ancora cercando il suo orizzonte rivoluzionario.
In Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, uscito a cura di Marco Di Maggio per la Biblioteca di Historia Magistra, il gruppo degli storici collegato all’omonima rivista, ha provato a calare questo tipo di riflessione nella storia italiana del Novecento.
Come scrive Angelo d’Orsi nella postfazione, la Rivoluzione del ’17 costituì nello stesso tempo «un oggetto spesso oscuro del desiderio, che in quanto impossibile da raggiungere veniva denigrato, ovvero, all’opposto, esaltato».
Uno dei punti di forza di questa raccolta di saggi consiste nel mettere in luce in che modo le vicende sovietiche costrinsero tutte le culture politiche a prendere posizione confermando così la portata epocale di quegli eventi. Un altro è nella scelta della cronologia, che prende le mosse dagli effetti immediati della Rivoluzione – si vedano i saggi sul ’17 nel socialismo italiano, sulle reazioni dei nazionalisti e sugli articoli della «Civiltà Cattolica» – alle riflessioni di media e lunga durata.
Il panorama dei soggetti investigati spazia dalla Chiesa cattolica alla Nuova sinistra, passando per Giustizia e Libertà, quotidiani come la «Stampa» e il «Corriere della sera», il Movimento Sociale. Il focus principale però è sulle reti intellettuali legate al Pci e al Psi.
Nel secondo dopoguerra non è un caso che l’unità tra comunisti e socialisti, costruita durante la lotta al fascismo, coincida con una lettura comune dell’eredità del ’17 superando in qualche modo la radicalizzazione originaria che aveva portato alla scissione di Livorno.
Gli orientamenti si iniziano a divaricare invece dopo i fatti di Budapest del 1956 che spingono Nenni a marcare il legame tra le origini dell’Unione sovietica e la fase staliniana. Il conflitto sulla memoria segue poi il processo di erosione culturale e simbolica del socialismo reale scandito dalla repressione di Praga. Il passaggio del ’68, che avrebbe meritato una maggiore focalizzazione, segna un momento spartiacque. Da un lato, il Pci di Berlinguer, impegnato a salvare il legame con la matrice leninista valorizzando però la ricerca di una terza via per la «rivoluzione in Occidente». Dall’altro, una nuova generazione di rivoluzionari che contesta l’intrinseca debolezza di tale proposta ideologica e vive un rapporto ambiguo con la memoria dell’Ottobre: c’è chi ne custodisce l’ortodossia e, soprattutto, chi contesta il fallimento dei padri.
L’ultimo saggio, a firma di Di Maggio, chiude il cerchio e tira alcune conclusioni. Dallo spoglio della stampa degli anni Ottanta emerge piuttosto chiaramente l’affermazione, anche a sinistra, di un mainstream centrato sulla natura totalitaria di ogni processo rivoluzionario. Da questo punto di vista, il bicentenario della Rivoluzione francese è l’apice di un processo che coincide sul piano politico con la definitiva marginalizzazione del Pci. Manca forse però nel libro una prospettiva culturale in senso largo che domandi perché l’idea stessa di rivoluzione sembra essere scomparsa nella cosiddetta stagione del riflusso. Sull’archeologia del discorso comunista c’è dunque ancora molto da scavare a partire proprio dal mito delle origini.